Il lavoro di squadra per realizzare questo monologo nasce da tre urgenze. La prima è quella di tenere viva una storia che tende a sparire e sminuirsi. La seconda è quella tenere viva una persona, fare tesoro delle persone che hanno cura e trasmetterne l’eredità. La terza è quella di tenere vivo un teatro, ossia svelare e perdersi in tutto questo in un modo non tipico dello spettacolo e dell’arte nelle loro convenzioni attuali, ma tipico della nostra antropologia d’origine, il cunto.
In epoche passate si cantava e si raccontava perché era necessario, e non perché era un lavoro. Chiunque poteva farlo, facendo qualunque altro lavoro per vivere. La scena era di chi se la prendeva ed era tutta offerta alla gioia, al dolore, alla memoria collettiva, senza professionismo obbligatorio ma per necessità sincera. In chiunque lavora veramente, nasce il canto. Vogliamo una società che si sappia cantare, e non solo che si sappia esibire.
Provare a fare tutto questo oggi, con la collaborazione della Fondazione Mimmo Beneventano, ha un valore enorme per noi, gruppo misto di professionisti vesuviani e lucani. Ci consente di restare vivi nella civiltà della nostra comunità, di rivolgerci al nostro ecosistema e alla nostra gente con un senso di crescita, di pace e di pazienza, per dare e ricevere a nostra volta crescita, pace e pazienza.
Questo non è uno spettacolo teatrale. Forse lo era alla sua nascita, dieci anni fa. Questa oggi è un’orazione civile che ha bisogno provvisoriamente di un teatro, e fondamentalmente di rendere i luoghi un teatro (luogo di visioni e incontri). È ispirata non tanto dalla stretta biografia di Domenico Beneventano ma precisamente dall’Arte e dalla Fiaba ereditate, incarnate e lasciate da lui ad Ottaviano ed all’Italia, tra l’abbandono, il segreto, la custodia e l’obbligo di non frequenza.
Da dieci anni ci guida una fantasia, una suggestione.
Immaginate un insolito narratore, un comune tarchiato meridionale, ha appena cenato come d’estate si fa intorno al Vesuvio, e cioè con paradisi gustativi di terra, mare, frutti e vino. È seduto in un piccolo angolo di un terrazzo. Ecco che comincia a narrare ai commensali una vita, la vita di un altro, di un uomo semplice nel suo coraggio, dalla nascita alla morte. Ma che storia è?
La storia/orazione di questa vita particolare è una stratificazione di atti pubblici, testi commemorativi, incontri casuali, voci di paese, poesie, scritti di uomini meridionali illustri, leggende, fantasie probabili ma inventate di sana pianta, improbabili verità agghiaccianti, cose che chissà come si vanno incrostando a volte in posti impensabili delle nostre librerie, camini, scrivanie, cucine, album di foto.
Da sempre, il suo racconto scintilla nei dopocena, nelle sere di frescura dopo il caldo, mai ad alta voce per strada, sempre al caldo dei cari. L’omertà dell’area vesuviana non è una cappa di silenzio, vi sbagliate, è una ghirlanda di racconti bisbigliati al momento giusto. Ecco, il momento più acceso della nostra fantasia, del nostro sogno, avviene proprio in questo punto: è come se, sazio, il commensale si alzasse, si cercasse una bella panchina sotto un lampione e un rampicante, o semplicemente un posto con un po’ di gente, e ricominciasse a raccontare, ma stavolta a chiunque voglia fermarsi… L’unica vera rivoluzione che manca a tutti i Sud: aprire il cuore alla strada, a comunità più grandi della propria famiglia, al passante, al viaggiatore… quel piccolo grande passo che impedisce ad una delle più grandi terre ospitali (quella dei popoli del sud) il divenire la grandissima civiltà che è pronta in loro: passare da ospitalità a società.
È una di quelle storie la cui fine (e soprattutto il cui fine) è sempre stata una strada, un luogo aperto. E per questo il monologo non è uno spettacolo teatrale, ma un’orazione civile che ha bisogno provvisoriamente di un teatro, e che fondantemente è sentita per rendere i luoghi comuni un teatro (luogo di visioni future e incontri presenti). Rivendichiamo un bisogno: che ogni luogo ritorni ad essere possibilità di visione ed incontro per gli esseri umani.
Sinossi
Eduardo Ammendola, medico, neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta e attore/regista teatrale ottavianese, parte dai suoi ricordi di infanzia e non solo per raccontare la storia di Mimmo Beneventano: medico, comunista militante, cattolico praticante e consigliere comunale dal 1975 a Ottaviano, Beneventano ha sempre dimostrato di aver coraggio nel denunciare pubblicamente gli atti camorristici di Raffaele Cutolo e di chi lo seguiva, usando parole dure e dirette. Ma il suo coraggio è stato punito nel novembre del 1980 quando le minacce sono diventate realtà e il giovane medico viene sparato e ucciso davanti alla madre.
Da questo momento Eduardo ha cominciato ad incontrare nel suo cammino Mimmo: nei sogni, nei racconti di chi lo ha conosciuto, nelle sue poesie e quasi sempre per caso.
Lo spettacolo, in scena dal novembre 2010, è destinato in particolare all’Ordine dei Medici, all’Associazione Libera, alle classi di passaggio di ciclo scolastico (III media, IV-V superiore) in compagnia delle famiglie, a tutti coloro che sono a favore della legalità.
Le rappresentazioni di Tentata memoria sono organizzate per offrire e favorire esperienze del proprio territorio e del proprio tessuto sociale, emotivamente pregnanti e cognitivamente significative e d’orientamento alle scelte e al passaggio cui i minori e le relative famiglie sono chiamati nel loro ciclo vitale di microcomunità fondanti la macrocomunità.
Note sulla messa in scena
Nel 1962 Peter Weiss teorizzava il suo teatro documentario un teatro in cui verbali, lettere, statistiche, reportage giornalistici e radiofonici, e altre testimonianze del presente costituiscono la base della messa in scena. Con la sua tecnica di montaggio, il teatro documentario mette in risalto chiari dettagli dal materiale caotico della realtà esterna. Con il confronto di dettagli contrastanti fa notare un conflitto esistente che poi, sulla base della documentazione raccolta, porta a una proposta di soluzione, a un appello o a una questione fondamentale. Tentata memoria accosta in maniera ironica, spiazzante e improvvisamente emozionante, articoli giornalistici e ricordi personali, documenti storici e personali episodi di vita Vesuviana, attraverso i quali Eduardo Ammendola ricorda insieme al pubblico frammenti di vita e frammenti di storia della sua terra e di Domenico Beneventano, un medico come lui, vissuto come lui ad Ottaviano, ucciso dalla camorra a pochi passi dalla sua abitazione, compagno di studi di suo padre. Nel suo testo scrive:
“Tra di noi, nel comune dire e sentire, la memoria è un archivio un magazzino. Tu hai un’informazione, la vai a prendere, la usi, la riponi. Per sempre, uguale, ad libitum sfumando. Ma molti studiosi dicono che la memoria è un’azione. Un’azione delle viscere: è nel corpo, nel battito cardiaco, nel colore cutaneo, nella profondità del respiro, nel pulsare di ogni ghiandola lacrimale. Affiora, sempre diversa, ribattezzata, richiamata dall’acustica di un luogo, dalla sua temperatura, dalla qualità della luce e degli sguardi ricevuti, dal numero di mani e piedi presenti in una stanza, dai silenzi che l’accolgono. E infatti la lingua italiana aveva già il verbo adatto, molto prima dell’autorizzazione scientifica. Ricordare. Quando riesce bene, “ricordare” permette di “ricordare” qualcosa anche a chi non c’era.Pensateci, in fondo, anagrammando, ri – cor – dare, è ri – dare – cor. Ri – dare – al cuore.”
In Tentata Memoria come nelle intenzioni di Weiss l’azione del ricordare non è un azione orientata al passato, ma un gesto collettivo per il presente, e la figura di chi ricorda ritrova nella figura evocata ma mai conosciuta, un doppio, un compagno di viaggio, un “ collega” con cui dialogare. Nel lavoro di ricucitura drammaturgica e registica di frammenti teatrali preesistenti propostomi da Eduardo, ho cercato di imbastire un luogo scenico e un rito attoriale capace di provocare ogni sera questo ricordare, questo ridare (al) cor, Circondando il corpo dell’attore di oggetti tecnologici e non , insegne luminose, rumori, abiti e fotografie di un era passata, gli anni ’80, vicina eppure lontanissima.
Ideazione e testo:
Eduardo Ammendola
collaborazione e consulenza:
Chiarastella Panaccione e Luigi Mosca;
documentazione storica e biografica:
Fondazione Mimmo Beneventano; Luigi Mosca; Gabriella Galbiati
Regia:
Nicola Laieta
Videoproiezioni:
Curata e proiettata da Luigi Mosca
Durata:
45’
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