Al Teatro Serra in scena “Una voce umana”


Francesca Fedeli, con la co-regia e il co-autorato di Gian Marco Ferone, firma un monologo che pone al centro una riflessione sul ruolo della voce e il rapporto con il senso (e la direzione) della propria identità e della propria esistenza.
Si tratta dello spettacolo “Una voce umana”, andato in scena al Teatro Serra dal 4 al 6 aprile. Per circa 50 minuti Francesca guida lo spettatore all’interno del suo sogno allucinatorio, permeato da molteplici suoni:  quelli dei pianeti e del battito fetale, che ci fanno riflettere su quanto sia monodimensionale e restrittiva la nostra attuale idea di comunicazione, dove l’unica e la migliore forma possibile è identificata con il logos, la parola umana.
Francesca si sente isolata e così sogna di correre su una strada vuota di una città anonima e cementificata, priva di persone con cui condividere qualsiasi momento o pensiero.
Il suo sogno – si scoprirà solo in seguito – nasce da un’esperienza reale di alienazione: quella di essersi sentita sola in mezzo a una moltitudine di persone, all’interno di un bar, in cui ognuno aveva la testa china sul suo cellulare, “blindato” in un microcosmo virtuale di stimoli ingannevoli, sedotto da illusorie prossimità fisiche ed emotive.
Questa sensazione di isolamento e di mancanza di qualsivoglia condivisione umana si amplifica fino a portarla a perdere la voce.
All’interno dell’universo onirico ci sarà spazio per innumerevoli percezioni che vanno oltre l’orizzonte razionale. Per entrare in contatto con livelli di coscienza sempre più profondi e avvertiti. La rappresentazione si fa ricettacolo di diverse registrazioni che ci catapultano nella tragedia di Alfredino, la prima morte in diretta, in cui i soccorsi furono ritardati dalla presenza di paninari e bibitari che avevano contribuito a trasformare un momento di profondo dolore in un evento mediatico, una sorta di spettacolo cui assistere.
Ci fa ascoltare la voce dell’ultimo cantante castrato, che nel 1904 lasciò traccia di sè, grazie a un’incisione del suo canto su dischi di cera. Si interroga su come oggi lui valuterebbe la sua performance, a livello di impatto emotivo. Se la considererebbe un’espressione eccelsa di arte o l’esito di un atto terribile: quello di castrare i bambini per preservare una voce acuta – come quella delle donne, cui il palco era interdetto all’epoca – ma possente come quella degli uomini.
Tutte voci che nelle intenzioni erano destinate a essere eternate, ma nei fatti risultano rubate al loro legittimo momento di intimità, disumanizzate, inautentiche, artificiali.  Paradossalmente Francesca riuscirà a trovare un’interlocutrice silenziosa e una parola di conforto solo da parte dell’intelligenza artificiale.

Si rinnova la riflessione sui tempi contemporanei, dove, forse, per parlare davvero con qualcuno bisognerebbe riscoprire le Voci della Natura.
La voce di Francesca – sotto forma di un cane antropomorfo, dotato di lanterna, dalla mimica e dalla prossemica potentemente espressive, che richiama il filosofo Diogene – forse si è rifugiata ai Tropici, dove interloquisce con lo stridío dei gabbiani, che pur non parlando lo stesso codice linguistico almeno sanno ascoltare e, a modo loro,  rispondono.
Alla fine, Francesca si riconcilierà in maniera autentica con sè stessa, con la sua storia e con il suo passato, comprendendo che non deve cercare una voce umana qualunque, ma la sua propria voce, peculiare e distintiva.
Questo messaggio viene trasmesso allo spettatore attraverso l’ascolto di un frammento di una cassetta che la stessa Francesca ha registrato all’età di nove anni, dichiarando già allora il suo amore profondo per il teatro e anche una primo ingente interesse per le potenzialità della voce.
Attraverso questa dimensione sospesa tra sogno e realtà, il presente ci mostra in controluce come lei sia riuscita a rimanere fedele a sè stessa e al suo sogno di bimba consapevole.
Lo spettacolo non vuole che si “resti seduti comodi”, come sottolinea Francesca, e punta a ottenere un effetto spiazzante, privo di giudizio e di risposte definitive, secondo un impianto di pensiero tipico della filosofia.
La Fedeli regge il ritmo e il portato di significati di un monologo difficile, spigoloso, a tratti disturbante, riuscendo a tenere il pubblico avvinto.
La chiusura, solo apparente, è in realtà aperta a diverse interpretazioni possibili, che si espandono come cerchi concentrici, il cui effetto sulla coscienza ci si augura sia a rilascio lento, ma prolungato e continuo.
TANIA SABATINO
Ph. Simona Pasquale

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